L’immagine
di Dio che emerge dai testi di Esodo è complessa e varia, e così egli si
rivela come Dio dei poveri, come protagonista di una lotta forte e risolutrice
contro i nemici della libertà del popolo, come il Dio dell’Alleanza e della
Legge, come guida provvidente nel deserto, ma soprattutto quale Dio della
misericordia smisurata verso il peccatore. Ritengo che essi vadano rintracciati
là dove Dio rivela il suo Nome e precisamente in Es 3,13-15; Es 6,2-8 ed Es
34,5-7. Infatti, il Dio dell’Esodo è in primo luogo un Dio misterioso e
irraggiungibile, che ha però un Nome e che rivela questo Nome a Mosè e ad
Israele.
La struttura
letteraria di Es 3 in cui viene rivelato il Santo Nome, oltre a mostrare tutti
gli elementi del cosiddetto “formulario di vocazione” (Berufungsformular)
manifesta una disposizione chiastica
A.
Introduzione teofania
(vv. 1-5)
B.
Autopresentazione di JHWH (v. 6)
C.
Vocazione di Mosè (con obiezione al v. 11)
(vv. 7-12)
D.
Seconda obiezione: quale nome? (v.
13)
E.
Spiegazione del nome (v. 14)
D’.
Risposta alla seconda obiezione
(v. 15)
C’.
La vocazione degli anziani di Israele
(vv.16-19)
B’.
Presentazione dell’agire di JHWH
(v. 20)
A’.
Conclusione narrativa: la spoliazione dell’Egitto (vv. 21-22)
La struttura chiastica e la
ricorrenza del verbo «dire» nei vv. 13-15 mostrano la centralità che il tema
della rivelazione del Santo Nome ha nelle redazione finale di questo
fondamentale capitolo esodico.
La rivelazione
del nome si intreccia poi con la formula ricorrente di «Dio dei padri» (vv.
6.13.15.16).
2.
Questo è il mio nome per sempre (Es 3,13-15)
Distinguiamo la questione filologica dalla questione teologica, che è
quella che ci interessa veramente.
La questione filologica si interessa delle origini ‘scientifiche’ del nome
“JHWH”. Per molti studiosi la sua origine non è ebraica, ma piuttosto
derivata dall’amorrita o da un altro tipo di semitico nord-occidentale come
apparirebbe dai dati epigrafici forniti dell’archeologia dell’A.V.O.
Ma qualunque ne sia
l’origine etimologica esatta,
la Bibbia offre una spiegazione teologica del tetragramma sacro, che viene fatto
derivare solitamente (ma è oggi oggetto di discussione) dal verbo essere (hyh).
Non è, però, la pertinenza scientifica di tale derivazione che deve qui
importare, ma la portata teologica della spiegazione posta sulla bocca di Dio
che comunicando il proprio Nome lo determina come: “Io sono Colui che
sono” o meglio “io sarò chi sarò” (’eheyeh
’ašer
’eheyeh).
Per spiegare questo passo
spesso la catechesi e l’omiletica si è riferita alla tradizione
interpretativa che risale alla traduzione greca dei LXX, che ha reso la frase
con l’espressione “Io sono l’essere” (egò
eimì ho òn), che corrisponderebbe alla nostra definizione moderna e
catechistica di Dio come «essere
perfettissimo». Questa interpretazione dell’«Io
sono Colui che sono», almeno apparentemente in termini di filosofia
dell’essere, ha avuto lunga fortuna, dai LXX a Filone, fino a tutta la
filosofia medievale.
Sarebbe dunque un’affermazione da parte di Dio della solidità e pienezza di
essere del divino in contrasto con la precarietà e contingenza dell’esistere
creaturale.
Ma tutto questo è trasferire concetti filosofici greci in un testo
che è certamente estraneo a questo contesto culturale. Il rischio è che con
questo tipo di lettura ‘grecizzante’ si perda lo splendido messaggio
teologico della rivelazione del Santo Nome. Pur non essendo queste idee, che
leggono l’«Io sono» nei termini
di una filosofia dell’essere, radicalmente incompatibili con il dettato
biblico, non dicono certamente la pienezza di senso della rivelazione di
questo Nome di brace, di un Dio che appare nel fuoco del roveto ardente
perpetuamente.
È dunque conveniente procedere con ordine nell’analisi
esegetica del versetto chiave, il v. 14.
In primo luogo va detto che, rispondendo a Mosè che il suo nome è «Io
sarò chi sarò», Dio dà prima impressione di volere in qualche modo
nascondere il proprio nome. Pensiamo se, ad es., uno ci rispondesse, quando
gli chiediamo la sua identità, che “egli è chi è!”:
noi avremmo l’indubbia sensazione che costui non abbia voluto risponderci
e comunicarci la sua identità. Questo apparente rifiuto a dire il proprio nome
è estremamente significativo, visto che il nome ‘segreto’ del dio serviva
nelle formule magiche per ottenere dalla divinità i favori desiderati.
Ricordiamo qui il rifiuto a dire il proprio nome da parte del personaggio
misterioso (che alla fine risulterà essere Dio!) che combatte con Giacobbe al
fiume Iabbok (Gen 32,28ss.); la stessa cosa si dica della risposta del
visitatore misterioso che annuncia la futura nascita di Sansone ai suoi
genitori: “perché mi chiedi il nome,
esso è misterioso” (Gdc 13,18). Con tale risposta, solo apparentemente
evasiva, Dio ribadisce a Mosè che Egli non può essere manipolato
dall’uomo, che rimane irraggiungibile e irriconoscibile per l’uomo se non
è Lui a farsi conoscere, a rendersi vicino, che non può essere usato. La
frase conserva tuttavia un sapore enigmatico perché vuole appunto affermare
che, anche se Dio rivela qualcosa di sé, il suo Nome rimarrà comunque sempre
“indisponibile”.
Ma la risposta divina, se dapprima potrebbe sembrare elusiva, alla luce
di quanto segue risulta invece essere una risposta autentica, positiva, ed
intende essere una rivelazione a Mosè per tutto il popolo: Dio vuole realmente
dire qualcosa di sé. Se Dio si sottraesse alla domanda di Mosè con una
risposta apparente, sarebbe dubbia anche la sua volontà di liberazione nei
riguardi di Israele. A ragione Mosè reclama un collegamento tra l’annuncio
della liberazione e la comunicazione del nome del liberatore, collegamento che
sarà ben segnalato in successive autoproclamazioni divine (cfr., ad es., Es
20,2; Os 12,10; 13,4).
Vediamo pertanto cosa afferma positivamente il testo. Prima ancora di
intraprendere l’analisi del significato del verbo “essere”
è necessaria una osservazione sul giro di frase usato per spiegare il nome:
è una frase nella quale si ripete, nella secondaria relativa, lo stesso verbo
alla stessa persona, tempo e modo della principale. Per spiegarci meglio,
frasi come: io faccio grazia a chi faccio
grazia, uso misericordia a chi uso misericordia, vado dove vado, ecc.
Questo tipo di linguaggio circolare, idem
per idem, frequente nella Bibbia, corrisponde a un modo di parlare nel quale
si vuole significare talora un senso di indeterminazione, ma altre volte, come
qui, che si fa liberamente, di propria volontà, una determinata azione, e,
cioè, riferendoci ad un testo preciso come Es 33,19:
“io faccio grazia a chi faccio grazia”
significa “io faccio grazia a chi
voglio fare grazia”.
Tornando al nostro brano, possiamo riassumere così la precedente
osservazione: Mosè riceve da Dio il “Nome” che afferma che Dio è quello
che vuole essere Lui, non è cioè determinato nel suo essere che da sé stesso,
dalla propria “volontà” e libertà.
A differenza dell’uomo, la cui libertà è sempre paradossalmente
condizionata e determinata, Dio ha esclusivamente nella sua libertà l’unico
fondamento del proprio esistere: egli è veramente libero d’essere quello
che vuole essere!
La formula idem per idem indica inoltre anche una totalità ed intensità (cfr.
ancora Es 33,19; Ez 12,25; 36,20). Significato che calza perfettamente con il
nostro passo!
Questo tratto della libertà di JHWH diventerà particolarmente
importante nel libro dell’Esodo quando il popolo si modellerà il vitello
d’oro, perché, non sopportando il silenzio di Dio, che sembra concretizzarsi
nell’assenza di Mosè, vorrebbe plasmarsi un Dio più “economico”, più
“manipolabile”, al servizio dei propri bisogni e desideri. Per questo Dio
rivelerà lì di nuovo il proprio Nome, ricordando che egli è sovranamente
libero nell’essere il Dio misericordioso.
Si deve poi notare che la formula ebraica è al futuro (“io sarò chi
sarò” oppure un altro tempo che indichi un’azione non «compiuta»; perciò
Aquila e Teodozione hanno tradotto: esomai
hos esomai). Il nome divino viene interpretato come «teologia della storia»:
Dio sarà così come vorrà essere e come si manifesterà concretamente nella
storia di Israele
Egli sarà un Dio «presente»; è infatti necessario comprendere il
significato del verbo “essere” (hyh)
in ebraico. Esso non indica uno stato o una condizione, ma un’azione e per
questo è grammaticalmente nella categoria dei verbi “attivi” e non dei
cosiddetti verbi “stativi”. Il verbo “essere” indica quindi una presenza
fattiva, un essere attivo. Dio si rivela allora a Mosè, manifestando il segreto
della sua persona, come Colui che è veramente attivo, che esiste e perciò
conta e vale, a differenza degli idoli che non sono o, meglio, non valgono o
possono nulla. Se il “nome” nel concetto semitico non è un vuoto
appellativo, ma la realtà stessa della persona, Dio rivela che la sua realtà
profonda è quella d’essere sempre presente con il suo popolo e di contare
realmente nella sua vita.
Il dinamismo di questa presenza è suggerito in tre modi: dal fatto che
l’iniziativa di manifestarsi a Mosè è soltanto di Dio, in secondo luogo dal
dinamismo dello šem
che nella mentalità semitica è inteso come concretezza delle azioni,
prestazione, potere e fama di una persona,
e infine dal significato che a tale Nome viene riconosciuto dal testo esodico.
A questo punto è utile riferirci all’intero contesto del cap. 3 ed in
particolare al v. 15, quando Dio si autoproclama Signore e Dio dei padri: “Dirai
agli israeliti: JHWH, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi: questo è il mio nome per
sempre, questo è il titolo con il quale io sarò ricordato di generazione in
generazione”. Da questo versetto si può ben vedere come l’autorivelazione
che Dio fa del suo nome, non è una sterile definizione filosofica, ma una
splendida promessa ed impegno.
Il suo nome è “essere presente”, “contare”, “essere liberamente
presente” come il Dio che liberamente vuole riscattare il suo popolo dalla
schiavitù, come il Dio presente a compiere le sue promesse, come Colui che in
modo indisponibile all’uomo ed indefettibile diventa liberatore del popolo. E
se si pensa che in ebraico il verbo è al futuro si può anche interpretare
l’enigmatica frase “Io sono chi sono” con un’accentuata risonanza
futura: “Io sono colui che liberamente sarà
accanto a te per liberarti, dovunque sia possibile che tu ti trovi”.
La parte finale del v. 15 trae le conseguenze teologiche della
rivelazione del Nome. Esso è tale per sempre in quanto designa una disposizione
di Dio verso il popolo che non può mutare, perché la sua fedeltà è
indefettibile. Il Nome sarà amato, celebrato, santificato da Israele, sarà
strumento perpetuo di adorazione.
Far memoria del Nome sarà pertanto fare memoria del Dio che ha
ascoltato il lamento del suo popolo e, dalla teofania del Sinai, anche dei suoi
comandamenti (Es 20,24). Israele sarà il popolo chiamato a commemorare il nome
di JHWH, il che significherà rinnovare incessantemente la sua conoscenza, la
fiducia in lui, la lode e il rendimento di grazie. “Memoria” e “Nome”
sono ormai inscindibilmente legati, in quanto la fede, che si nutre del ricordo
grato delle magnalia Dei, ritrova nel
Nome tale memoria che sostiene l’invocazione e la glorificazione (cfr. Sal
135,13) incessante.
Un altro elemento importante sul piano del significato teologico è il
legame (redazionale? o patrimonio già acquisito della fede di Israele?) tra il
v. 14 e il v. 15, dove il soggetto della missione di Mosè è la prima volta
1’«Io sono», mentre nel secondo
caso è «il Dio dei vostri padri,
il Dio di Abramo...». Il collegamento che l’autore stabilisce è dunque
tra il Dio della religiosità patriarcale, il Dio della liberazione e quello
della Legge.
Oltre che fare emergere la continuità del piano divino, questa connessione
getta una luce sul cammino della religiosità patriarcale, che non appare
più un vagare incerto, mosso semplicemente da un bisogno di sacro, ma si
ostende come rivelazione divina, protesa al compimento della promessa; d’altra
parte la rivelazione del Nome si dà come espressione sintetica del dispiegarsi
storico delle azioni salvifiche di JHWH, rivolte alla formazione di un popolo
che liberamente consente all’Alleanza e alle esigenze di questa.
Per illustrare la peculiarità della rivelazione biblica di Dio si può
partire proprio da questa teologia esodica del Nome, dove Dio nomina se stesso
come soggetto e, con l’emergenza del nome, il linguaggio si muta in istanza di
discorsi, in evento di parola; così non può essere compresa la rivelazione del
Nome come un’informazione su un oggetto, ma come un’interpellazione che
obbliga il destinatario a situarsi rispetto al parlante. Con il Nome si entra
pertanto nel registro della rivelazione. Ciò che decide dell’accessibilità
di Dio non è la capacità dell’uomo di superarsi, di trascendersi, ma
questa inaccessibile e indisponibile volontà di Dio di manifestarsi. Dio non è
il termine della trascendenza umana portata al massimo, ma Colui che
liberamente si concede, al di là di ogni prospettiva umana, e che perciò
rimane nascosto nella sua stessa manifestazione; è il Dio che rivela se stesso
come il Dio dell’Alleanza, cioè che vuole entrare in relazione con noi, ma
esattamente come il Dio “altro” dalle nostre rappresentazioni di Lui. Non a
caso il Tetragramma si trova nella condizione strana per cui il nome non deve
mai essere pronunciato; e il Tetragramma è sostituito, nella lettura, da Adonai,
o haššêm che a sua volta non deve
essere pronunciato invano. “Il nome ha un nome, il nome si mostra e si
dissimula. Occorre che la venuta del senso nel contesto sia sempre anche un’anacoresi
o una santità: occorre che la voce nel parlare sia anche la voce che si
affievolisce o tace”.
4. In Egitto: una nuova
rivelazione del Nome?
La risposta divina al lamento di Mosè è il cosiddetto secondo racconto
di vocazione di Mosè
(Es 6,2-8). Ci limitiamo qui a proporre delle riflessioni che sviluppano gli
spunti di analisi di J.-L. Ska.
Procederemo in questo modo: stabiliremo il genere letterario del passo, poi il
suo contenuto e i rapporti del testo con il suo contesto.
Anche la questione del genere letterario è importante. Indubbiamente il
testo di Es 6,2-8, in quanto sacerdotale, segue nella trama il racconto di Es
2,23-25. È in qualche modo quindi la risposta al lamento degli israeliti ed è
il corrispondente sacerdotale della vocazione di Mosè, che troviamo in Es
3-4. Sarebbe pertanto un doppione di Es 3-4. Ma la cosa non è così chiara in
quanto mancano elementi essenziali nel racconto di vocazione come l’obiezione,
una risposta chiara all’obiezione e chiaro invio in missione. Sono state date
quindi varie soluzioni. Proponendo di leggere il nostro testo in continuazione
diretta con Es 2,23-25 si è suggerito di vedervi un oracolo di salvezza, un
oracolo di giudizio, un oracolo di prova. Nessuna di queste ipotesi però è
veramente convincente. Secondo Ska, che critica le soluzioni di M. Oliva e di P.
Weimar, la soluzione è da ricercare nel confronto con certi testi di Ezechiele
(Ez 11,1-13.14-21; 12,21-25.26-28; 14,1-11; 20,1-31; 26,1-6; 36,16-32; 37,1-14).
Soprattutto Ez 20,1-31 fornisce un parallelo particolarmente interessante
nella forma e nel contenuto, con un riassunto della storia dell’esodo e del
soggiorno nel deserto. La struttura di questi oracoli è analoga a quella del
nostro testo di Esodo. Una formula di introduzione; un messaggio destinato al
profeta, riguardante il passato; la formula cerniera
laken ’emor; un messaggio da trasmettere al popolo concernente il
futuro; una conclusione. Sono numerose le corrispondenze con il nostro testo
di Esodo. Innanzitutto qui Dio si rivolge a Mosè soltanto, tutti i verbi sono
al passato, vi è la formula cerniera e il resto dell’oracolo è destinato a
tutto Israele e concerne il futuro del popolo. Sembra allora legittimo vedere in
Es 6,2-8 un oracolo di risposta assai vicino alle “parole
di disputa” o ai “discorsi di confronto” di Ezechiele. Questi oracoli hanno la funzione di rispondere
a obiezioni, a una critica antecedente e di prendere posizione di fronte a
certi fatti del passato. Bene, qui la domanda è: «Ma che cosa deve rispondere
o che cosa deve criticare Es 6? Quali sono i fatti che provocano la reazione di
Dio?». Può essere utile allora qui, ancora prima di dare una risposta,
analizzare il contenuto dell’oracolo.
E’ bene notare che il nostro testo di Es 6,2-8 sembra
riassumere un po’ tutta la storia sacerdotale, da Gen 17 a Nm 14, a Dt 31;
abbiamo infatti un riassunto della storia di Israele dopo le promesse fatte ai
patriarchi fino all’entrata nella terra promessa. E anche la terminologia e
certi temi vanno molto al di là di ciò che si è letto in Es 3-4. Ma c’è di
più. Lo scrittore Sacerdotale usa una terminologia speciale per descrivere
questa storia di Israele e notiamo che detta terminologia appartiene al
vocabolario familiare. In altri termini il sacerdotale descrive come Israele
è entrato a fare parte della “famiglia di Dio”. Ebbene il primo verbo
importante che appare è il verbo g’l
(Es 6,6). Questo verbo è usato unicamente qui dal Sacerdotale, mentre nel resto
dell’Esodo si trova solamente in Es 15,13. È inutile insistere sul ruolo del go’el e sulla sua significazione teologica in certi contesti,
soprattutto nel Deuteroisaia. La questione è di sapere perché Dio usi questo
verbo per qualificare la sua azione di salvezza verso Israele. Noi sappiamo
che il goelato suppone un rapporto di
parentela ed è il parente più prossimo colui che deve riscattare un membro
della famiglia ridotto in schiavitù, deve vendicarlo o deve attuare la legge
del levirato. Non può essere quindi senza significato l’uso del termine
g’l per dire l’azione di liberazione verso Israele. E la risposta è
questa: Dio libera Israele redimendolo, proprio perché, grazie ad un patto
concluso con i patriarchi, egli è diventato il familiare di Israele o
viceversa Israele è il familiare di Dio (Es 6,3-4.8). È questa alleanza
quindi il motivo che Dio menziona esplicitamente per spiegare il proprio
intervento (6,5b). Ecco allora un legame di parentela che unisce Dio al suo
popolo.
La seconda espressione va nel medesimo senso e segnala una
tappa ulteriore dell’entrata di Israele nella sfera intima di JHWH. In effetti
l’espressione lkh...
le... le... segnala l’introduzione di un nuovo
membro nella famiglia (6,7).
Con questo verbo si può trattare di una sposa (come in Gen 12,19; 25,20; 28,9;
ecc.), di una ragazza (in Est 2,7.15), di uno schiavo (2Re 4,1). Sempre in Es
6,7 abbiamo una terza modalità che completa questo quadro del vocabolario
familiare: hyh... le... le...,
che significa “essere, appartenere a... come...”. Questo giro di frase si
ritrova anche in Gen 20,12; 24,67; Nm 36,11; Dt 20,13. Con questa formula in Es
2,10 si descrive la formula di adozione di Mosè da parte della figlia del
Faraone. È quindi una formula di
adozione. Essa si ritrova anche in 2Sam 7,1-14 e 1Cr 17,3, allorché Dio afferma
che sarà un padre per il re e il re sarà per Lui un figlio, cioè lo adotta.
Più sovente queste due formule di Es 6,7 appaiono nel discorso matrimoniale:
prendere qualcuno come donna, come uomo; ma questo uso non è affatto esclusivo.
Il nostro autore ha quindi voluto suggerire la metafora del matrimonio nel
contesto d’alleanza e forse anche la metafora dell’adozione (Es 6,7
descrive gli avvenimenti del Sinai in realtà). Però non è facile scegliere
tra il linguaggio matrimoniale e quello filiale. Infine abbiamo un’ultima
espressione che viene a completare questo quadro ed è il verbo bw’ (hifil, 6,8) che appare spesso anche nel contesto familiare.
Infatti in Gen 24,67; Dt 21,12 e Gdc 12,9 questo verbo descrive l’azione di
introdurre una o più spose nella casa o in famiglia (cfr. Rut 4,11). Non è
certamente l’unico significato del verbo, ma non è senza significato il fatto
che esso sia vicino ad altri verbi che hanno questa connotazione familiare.
Tale analisi ci permette allora di dire che l’autore sacerdotale
vede l’alleanza, ancora più che come una categoria astratta, come la cifra
sintetica per leggere la storia di Israele e questa storia è una storia
familiare. I figli di Israele sono schiavi in Egitto, ma non si devono
preoccupare della loro sorte perché Dio ha sentito il loro grido. Egli si
ricorda della sua alleanza con i patriarchi ed è venuto a riscattarli, cioè a
compiere il suo dovere di familiare. JHWH non si può lì accontentare quindi
di liberare il suo popolo (il verbo ys’
hifil); piuttosto lo adotta, lo fa entrare nella sua intimità, lo fa diventare
sua sposa, suo figlio, comunque sua propria famiglia.
L’ultima tappa di questo processo è l’introduzione
nella terra promessa, che in fondo corrisponde molto all’introduzione della
sposa nella stanza nuziale. Tutta questa storia familiare è inquadrata e
attraversata dall’ affermazione ’anî
JHWH (Es 6,2.6.8; si veda anche la formula di riconoscimento nel v. 7). Il
nome JHWH è stato rivelato da questa storia che Dio fa con il suo popolo. Si
noti poi l’uso del verbo ydc
al v. 2b e 7b.
Allora la storia di Israele, questa pagina della storia di Israele
e la rivelazione del nome di Dio sono una medesima cosa; la storia di Israele
che diviene la famiglia di Dio rivela un altro aspetto del significato del nome
JHWH.
Inversamente il nome di JHWH non può essere che conosciuto
attraverso l’esperienza dell’alleanza, cioè l’esperienza della storia dei
rapporti intimi tra Dio e il suo popolo. E così in Es 6,2-8 non è illustrato
soltanto un riassunto della storia di Israele, ma al medesimo tempo viene dato
per così dire il succo di quella che è la rivelazione del nome di JHWH, cioè
la rivelazione di un Dio che si vuole comunicare fino ad intessere con noi
rapporti reciproci di alleanza, di profonda intimità.
In conclusione appare il senso anche di questo testo che è
un’ affermazione di un Dio che si rivela con tutta l’autorità e con tutta
la sua potenza; ed egli si rivela come il Dio per Israele, cioè il Dio
dell’alleanza, il Dio che si lega strettamente alla storia di Israele. Il
genere di questo testo quindi appare anche chiaro ed è il genere di
rivelazione. Il legame con il contesto è evidente, non solo la relazione tra Es
6,5 e 2,24 con le espressioni proprie corrispondenti, ma anche il legame del
nostro brano con il lamento di Mosè al cap. 2,22-23. Egli è contestato nella
sua missione e si domanda il senso dell’intervento di Dio, e Questi risponde
dicendo che il suo è l’intervento di un familiare, il quale si sente
impegnato nel rispettare il rapporto di intimità, di familiarità che ha con
il popolo. E così la costruzione enfatica del cap. 5,23 («e tu non hai certamente liberato il tuo popolo») appare collegata
con Es 6,6. E non è facile dire che sia una pura coincidenza.
Poiché l’oracolo nostro è un oracolo di rivelazione e
tratta innanzitutto del nome di Dio e del rapporto di Dio con il suo popolo,
appare il legame anche col contesto della domanda del Faraone al cap. 5,2: «Chi
è JHWH? Io non conosco JHWH». Così la ripetizione della formula
d’affermazione: «sono io JHWH» prende un rilievo particolarmente radicale.
Come pure bisogna riconoscere che prendono rilievo molto forte Es 6,7 e Es 7,5
con la loro formula di riconoscimento, prima da parte di Israele poi dall’Egitto,
che conosceranno JHWH, cioè quel Dio che il Faraone pretende di ignorare.
Vediamo pure che la contestazione del Faraone riguarda anche
il legame che unisce questo Dio al suo popolo, discutendo questo legame egli
mette in questione quindi anche l’esistenza di JHWH. Il messaggio di Dio
consegnato da Mosè era abbastanza chiaro: «Libera il mio popolo» e la risposta
del Faraone è ugualmente netta. Il tema del popolo che appartiene a Dio è
particolarmente frequente in Es 3-5 e la parola ‘am
vi appare ben 26 volte. L’oracolo allora sottolinea con molta insistenza
l’appartenenza di Israele a JHWH, proprio perché questa appartenenza è stata
messa in dubbio. Evidentemente Es 6,2-8 non risponde direttamente al Faraone, ma
a Mosè e al lamento di Mosè. La risposta alla critica e al dubbio del
Faraone apparirà invece in Es 7,4-5. Se leggiamo poi il testo nella sua situazione
canonica attuale possiamo dire che Es 6,2-8 gioca un ruolo cruciale; in effetti
la narrazione ha raggiunto il punto più basso proprio alla fine del cap. 5,
quando la resistenza del Faraone trova un alleato nella resistenza stessa del
popolo di Dio ad essere liberato. In effetti si ha l’impressione che Dio abbia
mandato invano Mosè a
liberare il suo popolo, e la situazione di Israele pare peggiorata rispetto alla
precedente. Persino Mosè sembra scoraggiato e appare mettere in discussione
la sua missione; bisogna assolutamente che allora Dio rilanci la propria
iniziativa. La palla è tornata, per così dire, nel campo di Dio e abbiamo qui
la risposta: Dio si afferma come il Dio dell’alleanza, il Dio che ha stretto
legami di profonda intimità, legami indissolubili, quasi carnali con il suo
popolo.
Possiamo perciò anche dire che Es 6,2-8 non è
semplicemente un racconto di vocazione, non è un semplice parallelo sacerdotale
di Es 3-4. Questo testo sacerdotale si presenta quindi come una
reinterpretazione della tradizione e precisamente delle tradizioni dell’Esodo.
Una reinterpretazione alla luce della teologia dell’Alleanza. Questo testo
sacerdotale conosce certamente i dati della tradizione antecedente; proprio per
questo allora li utilizza e li reinterpreta. Ci sembra che l’autore abbia
voluto reinterpretare la storia delle origini di Israele in funzione di una
teologia particolare, basata sui legami di Alleanza che uniscono Dio al suo
popolo. Per mettere in valore questa teologia il sacerdotale ha redatto un
racconto che riprende l’essenziale delle tradizioni antecedenti dandogli però,
per così dire, una svolta nuova. In seguito ha piazzato questa pagina in un
punto strategico del racconto. Es 5 lascia il lettore di fronte a una situazione
disperata, poiché il primo intervento di Mosè ha aggravato il malessere di
Israele. Il testo prolunga quindi la breve risposta di Dio al cap. 6,1 e
rilancia il racconto portando una risposta profondamente teologica.
5. Il Nome della misericordia
Il libro di Esodo mostra un popolo di Israele facile ad ostinarsi e ad
irrigidirsi fino a giungere a dire un “no” pratico a Dio. Ma proprio tale
esperienza del peccato, che l’uomo autenticamente religioso fa, lascia qui
al Sinai il passo all’esperienza del perdono divino, del manifestarsi della
sua infinita misericordia che vuole incessantemente riallacciare i rapporti
con l’uomo peccatore. È su questa misericordia che Mosè punta, come sulla
unica chance che Israele ha per superare il peccato che lo affligge,
l’infedeltà di cui fa continuamente amara constatazione. Così
l’intercessione di Mosè spinge Dio ad intervenire nuovamente in favore del
popolo. E’ quanto racconta il cap. 34, che ripete in parte la struttura del
cap. 19 con l’aggiunta dell’ordine ed esecuzione conseguente di tagliare
le tavole e di salire sul monte.
La teofania di Es 34,5-9 precede perciò il rinnovamento
dell’alleanza e il dono della legge (Es 34,10-28), che poi Mosè trasmette ad
Israele (Es 34,29-35).
La teofania mostra a Mosè il Nome del Dio della misericordia,
la cui condiscendenza verso gli uomini si mostra quasi plasticamente nel verbo
“scendere”, con cui si descrive l’approssimarsi di Dio a Mosè. La nube in
cui Egli scende serve anche a nasconderlo agli occhi di Mosè, per indicare che
Dio si mostra davvero all’uomo, ma nel contempo non può che lasciare soltanto
trasparire le proprie sembianze, perché altrimenti l’uomo non sopporterebbe
il fulgore della sua potenza.
Il testo poi continua lasciando un margine di ambiguità sul soggetto
che proclama il Nome del Signore: Dio o Mosè? Scrive A. Schökel: «La nostra
interpretazione del testo porta a pensare che in questo momento... è Mosè che
pronuncia il nome del Signore; e mentre lo pronuncia l’eco gli restituisce la
stessa parola. E come nell’eco umana accade che la voce che rimbalza sulla
montagna concava o sulla superficie liscia della roccia ci venga restituita
con alcune armonie della montagna, così qui non
è la voce di Mosè che viene restituita dalla roccia, ma è Dio stesso
che pronuncia il suo nome e i suoi titoli. E noi dobbiamo ascoltarlo così
perché quando pronunciamo il suo nome, lo sminuiamo con le nostre labbra.
Dobbiamo invocare umilmente, e poi fare silenzio per ascoltare il nome di Dio
pronunciato da lui stesso, e ascoltare come suona».
Infatti al v. 6 è Dio che passando proclama il proprio Nome davanti a
Mosè. Il testo presenta tutto un lungo elenco di titoli e nomi che combina tra
loro in liste differenti (ad es., Sal 86,15; Es 20,5-6; cfr. Nm 14,18 che è il
testo più vicino a questo di Es 34,6-7). Non proponiamo qui una sommaria
spiegazione dei titoli, entrando in un’analisi che esorbiterebbe dai limiti di
questo studio.
È un testo in cui confluisce tutta la tradizione biblica
sull’immagine di Dio. Dio è definito misericordioso (rahûm)
e pietoso (hannûm). Il primo
termine deriva dal verbo raham
che nella forma intensiva indica essere commossi fino alla tenerezza, avere un
amore intenso e partecipato visceralmente, provare misericordia per qualcuno.
Il grembo della donna, infatti, si dice rehem.
Dio prova, per così dire, sentimenti materni verso il suo popolo, come canterà
poi con intenso lirismo Is 49,15.
Il secondo termine sta a significare clemenza, pietà. E’ illuminante
l’uso che ne fa Es 22,26 dove Dio si proclama hannûm,
perché ascolta il grido del povero
che lo invoca poiché sprovvisto del mantello dato in pegno, unico suo riparo
contro il freddo. Il termine richiama perciò l’idea del sovrano che si piega
sul bisognoso e rende giustizia all’indifeso.
La formula «lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà» ci dice che JHWH
non è come l’uomo che perde immediatamente la pazienza, ma che pur avendo
mille ragioni per adirarsi contro di noi non si lascia vincere da questa volontà
di rivalsa. Certamente sono espressioni molto antropomorfiche e che prendono i
sentimenti umani per illustrare quello che passa nel mistero del cuore di Dio.
Nondimeno è chiaro il kerygma essenziale di questa stupenda proclamazione
divina del Nome: JHWH è il Dio che vuole rivelarsi nella storia degli uomini
attraverso la misericordia e un amore smisurato. Di fronte al peccato Egli non
è indifferente ma si manifesta per quello che è veramente nel perdono della
«colpa (‘awon), trasgressione (peša‘),
peccato (hatta’ah)»
ancor più che nel castigo, che ha eminentemente valore pedagogico. Questo suo
atteggiamento non è passeggero, mutevole come negli uomini, ma è stabile come
la sua fedeltà; ecco che egli è il Dio che «conserva la sua grazia per mille
generazioni». Sulla longanimità di Dio si innesta infatti la sua ricchezza di
grazia (hesed) e di fedeltà
(’emet).
Conversazione
tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 23 ottobre 2000
Testo
redatto dall’Autore
La bibliografia sul Tetragramma di Es 3,14 è davvero sterminata, come
attesta l’Elenchus of Biblica
(Elenchus Bibliograficus Biblicus) che vi dedica da anni uno spazio
specifico. Queste poche pagine su Es 3,13-15 sono state elaborate tenendo
conto dei commentari di B. S. Childs; F. Micheli; J. I. Durham e soprattutto
dell’articolo di B. N. Wambacq,
’eheyeh ’ašer
’eheyeh, in
Biblica 59 (1978) 317-338.
Il problema delle origini dello jahvismo si intreccia con quello delle
attestazioni extrabibliche del nome JHWH o dell’ipocoristico
JHW o JH.
Esso sembra attestato a Mari (jawi),
a Ugarit (jaw), a Biblo (jao) e anche in iscrizioni nabatee si trova il dio ’hjw.
La discussione in campo esegetico, pur nelle divergenze di posizioni sul
valore e sull’interpretazione di tali dati, giunge alla conclusione che lo
jahvismo è più antico dell’Israele biblico e non fu una sua innovazione;
originale invece è lo spessore teologico che la riflessione sul Nome
acquista nella fede di Israele. Sul problema cfr. J. De
Moor, The Rise of Yahwism, Grand Rapids, Michigan, 1995; H. Cazalles,
Yahwisme, ou Yahwé en son peuple, in R. Kuntzmann (ed.), Ce Dieu
qui vient, Lectio divina 159, Paris 1995.
Vi è chi propende a riconoscere che il tetragramma JHWH riflette in modo
corretto la forma più antica del nome che rappresenta la forma verbale
sostantivata di uno stato coniugato del semitico hyw,
con la preformante ya della terza
persona del singolare (Lipinsky). Altri (Cazelles) ricercano invece
all’etimologia del nome in antroponimi amorriti del tipo jawi-ilu
jawi-ila dove jawi sarebbe il pronome personale “il mio”. Si avrebbe così il
collegamento tra il Dio dei padri, “il mio dio”, e il dio nazionale JHWH.
Ma poiché nel semitico occidentale tale pronome è privo di
significato, si sarebbe cercato un collegamento con il verbo essere, come è
attestato in Es 3.
È discutibile, però, ritenere che i LXX con questa traduzione nelle linea
dell’«essere» abbiano effettivamente inteso collocarsi sulla base della
«metafisica greca» e non piuttosto sulla base della «rivelazione storica»
del Dio dell’esodo come colui che è «presente accanto» al popolo
oppresso.
Se “dare il nome” è “fare esistere”, “nominare” (Gen 2,19) e
“cambiare nome” indica il potere di chi fa ciò; ma anche il
“conoscere” il nome permette di esercitare un potere, come, ad esempio,
pretende lo spirito immondo in Mc 1,24.
Commentando Es 33,19 B. S. Childs
scrive: “il nome di Dio, che come la sua gloria e il suo volto sono mezzi
per esprimere l’essenza della sua natura, viene definito sulla base dei
suoi pietosi atti di misericordia. La formula circolare idem
per idem del nome - farò grazia a chi farò grazia - è strettamente
affine a quella del nome in Es 3,14- Io sono chi sono - e con la sua
tautologia, è una testimonianza della libertà di Dio nel rendere nota
l’indipendenza del proprio essere” (B.
S. Childs, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Casale
Monferrato, 1995, p. 599).
“Vriezen ha mostrato chiaramente che la formula non è una semplice
espressione di indeterminatezza, ma un’accentuazione della realtà di Dio:
“«io sono chi sono» significa:
«io sono là, dovunque sia possibile...
sono realmente là”»” (B. S.
Childs, op.
cit., p. 85).
Cfr. A. S. Van Der Woude,
šem (nome), in E. Jenni - C. Westermann,
Dizionario teologico dell’Antico
Testamento, vol. II, Casale Monferrato, 1982, 845-869, qui coll. 355-56.
Non vogliamo risolvere qui la
problematica del «Dio dei padri», che si articola in tre direzioni:
1)
Il Dio dei padri viene presentato come lo stesso dio, ma era davvero
un dio unico o era un dio diverso per ogni padre?
2)
“Dio dei padri” era
il nome proprio di questo Dio, oppure era solo un epiteto particolare dato
da un clan al Dio che chiamava El?
3)
Se questo fosse vero, il «Dio dei padri» va allora collegato al dio
«El» del pantheon cananeo?
In
ogni caso di un nome proprio El per il dio patriarcale Es 3 non parla. La
domanda di Mosè al v. 13 è comprensibile solo se “Dio di Abramo:::” è
visto come un nome generico. Ma ciò è solo un uso linguistico posteriore
introdotto dopo l’identificazione di JHWH con il Dio dei padri, oppure una
testimonianza storica?
E. Levinas, L’Aldilà
del versetto, Napoli, 1986, p. 204.
Cfr. G. Trabacchin, La
rilettura sacerdotale della vocazione di Mosè, in
Parole di Vita 17 (1996) n° 2, pp. 19-24.
J.-L. Ska, Quelques remarques
sur
Pg et la dernière rédaction du
Pentateuque, in
A. De Pury (ed.), Le
Pentateuque en question, Genève , Labor et Fides, 1989 , 95-125.
Rimando qui allo studio su lkh di H.H. Schmid,
«Lkh, Nehmen», THAT I, 877.
L. Alonso Schoekel - G. Gutierrez,
La missione di Mosè, EAP, Roma
1991, p. 124
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