ciclo di incontri - Novembre2000
Quaderno n. 78
Leggiamo la Scrittura. Genesi e Esodo
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«Questo è il mio nome per sempre» (Es 3,15)
Le tappe dell’alleanza attraverso la rivelazione del Nome


Patrizio Rota Scalabrini


L’immagine di Dio che emerge dai testi di Esodo è complessa e varia, e così egli si rivela come Dio dei poveri, come protagonista di una lotta forte e risolutrice contro i nemici della libertà del popolo, come il Dio dell’Alleanza e della Legge, come guida provvidente nel deserto, ma soprattutto quale Dio della misericordia smisurata verso il peccatore. Ritengo che essi vadano rintracciati là dove Dio rivela il suo Nome e precisamente in Es 3,13-15; Es 6,2-8 ed Es 34,5-7. Infatti, il Dio dell’Esodo è in primo luogo un Dio mi­sterioso e irraggiungibile, che ha però un Nome e che rivela questo Nome a Mosè e ad Israele.

1. Il contesto

La struttura letteraria di Es 3 in cui viene rivelato il Santo Nome, oltre a mostrare tutti gli elementi del cosiddetto “formulario di vocazione” (Berufungsformular) manifesta una disposizione chiastica

A.   Introduzione teofania                                                (vv. 1-5)

B.   Autopresentazione di JHWH (v. 6)

C.   Vocazione di Mosè (con obiezione al v. 11)        (vv. 7-12)

D.   Seconda obiezione: quale nome? (v. 13)

E.   Spiegazione del nome (v. 14)

D’. Risposta alla seconda obiezione              (v. 15)

C’. La vocazione degli anziani di Israele            (vv.16-19)

B’. Presentazione dell’agire di JHWH               (v. 20)

A’. Conclusione narrativa: la spoliazione dell’Egitto (vv. 21-22)

 

La struttura chiastica e la ricorrenza del verbo «dire» nei vv. 13-15 mostrano la centralità che il tema della rivelazione del Santo Nome ha nelle redazione finale di questo fondamentale capitolo esodico.

La rivelazione del nome si intreccia poi con la formula ricorrente di «Dio dei padri» (vv. 6.13.15.16).

 

2. Questo è il mio nome per sempre (Es 3,13-15)

2.1. L’approccio al problema

Distinguiamo la questione filologica dalla questione teologi­ca, che è quella che ci interessa veramente[1]. La questione filologica si interessa delle origini ‘scientifi­che’ del nome “JHWH”. Per molti studiosi la sua origine non è ebraica, ma piuttosto derivata dall’amorrita o da un altro tipo di semitico nord-occidentale come apparirebbe dai dati epigrafici forniti dell’archeologia dell’A.V.O.[2]

Ma qualunque ne sia l’origine etimologica esatta[3], la Bibbia offre una spiegazione teologica del tetragramma sacro, che viene fatto deri­vare solitamente (ma è oggi oggetto di discussione) dal verbo essere (hyh). Non è, però, la pertinenza scientifica di tale derivazione che deve qui importare, ma la portata teologica della spiegazione posta sulla bocca di Dio che comunicando il proprio Nome lo deter­mina come: “Io sono Colui che sono” o meglio “io sarò chi sarò” (’eheyeh ’ašer ’eheyeh).

Per spiegare questo passo spesso la catechesi e l’omiletica si è riferita alla tradizione interpretativa che risale alla traduzione greca dei LXX, che ha reso la frase con l’espressione “Io so­no l’essere” (egò eimì ho òn), che corrisponderebbe alla nostra definizione moderna e catechistica di Dio come «essere perfettissimo». Questa interpretazione dell’«Io sono Colui che sono», almeno apparentemente in termini di filosofia dell’essere, ha avuto lunga for­tuna, dai LXX a Filone, fino a tutta la filosofia medievale[4]. Sa­rebbe dunque un’affermazione da parte di Dio della solidità e pienezza di essere del divino in contrasto con la precarietà e contingenza dell’esistere creaturale.

Ma tutto que­sto è trasferire concetti filosofici greci in un testo che è cer­tamente estraneo a questo contesto culturale. Il rischio è che con questo tipo di lettura ‘grecizzante’ si perda lo splendido messaggio teologico della rivelazione del Santo Nome. Pur non essendo queste idee, che leggono l’«Io sono» nei ter­mini di una filosofia dell’essere, radicalmente incompatibili con il dettato biblico, non dicono certamente la pienezza di senso della rivela­zione di questo Nome di brace, di un Dio che appare nel fuoco del roveto ardente perpetuamente.

2.2. Una risposta evasiva?

È  dunque conveniente procedere con or­dine nell’analisi esegetica del versetto chiave, il v. 14.

In primo luogo va detto che, rispondendo a Mosè che il suo no­me è «Io sarò chi sarò», Dio dà prima impressione di volere in qualche modo nascondere il proprio nome. Pensiamo se, ad es., uno ci rispondes­se, quando gli chiediamo la sua identità, che “egli è chi è!”:  noi avremmo l’indubbia sensazione che costui non abbia voluto rispon­derci e comunicarci la sua identità. Questo apparente rifiuto a dire il proprio nome è estremamente significativo, visto che il nome ‘segreto’ del dio serviva nelle formule magiche per ottenere dalla divinità i favori desiderati[5]. Ricordiamo qui il rifiuto a dire il proprio nome da parte del personaggio misterioso (che alla fine risulterà essere Dio!) che combatte con Giacobbe al fiume Iabbok (Gen 32,28ss.); la stessa cosa si dica della risposta del visitatore misterioso che annun­cia la futura nascita di Sansone ai suoi genitori: “perché mi chiedi il nome, esso è misterioso” (Gdc 13,18). Con tale rispo­sta, solo apparentemente evasiva, Dio ribadisce a Mosè che Egli non può esse­re manipolato dall’uomo, che rimane irraggiungibile e irricono­scibile per l’uomo se non è Lui a farsi conoscere, a rendersi vi­cino, che non può essere usato. La frase conserva tuttavia un sapo­re enigmatico perché vuole appunto affermare che, anche se Dio ri­vela qualcosa di sé, il suo Nome rimarrà comunque sempre “indi­sponibile”.

Ma la risposta divina, se dapprima potrebbe sembrare elusiva, alla luce di quanto segue risulta invece essere una risposta autentica, positiva, ed intende es­sere una rivelazione a Mosè per tutto il popolo: Dio vuole real­mente dire qualcosa di sé. Se Dio si sottraesse alla domanda di Mosè con una risposta apparente, sarebbe dubbia anche la sua volontà di liberazione nei riguardi di Israele. A ragione Mosè reclama un collegamento tra l’annuncio della liberazione e la comunicazione del nome del liberatore, collegamento che sarà ben segnalato in successive autoproclamazioni divine (cfr., ad es., Es 20,2; Os 12,10; 13,4).

2.3. La libertà di essere

Vediamo pertanto cosa afferma positivamente il testo. Prima ancora di intraprendere l’analisi del significato del verbo “essere” è ne­cessaria una osservazione sul giro di frase usato per spiegare il nome: è una frase nella quale si ripete, nella secondaria relativa, lo stesso verbo alla stessa persona, tempo e modo della principa­le. Per spiegarci meglio, frasi come: io faccio grazia a chi fac­cio grazia, uso misericordia a chi uso misericordia, vado dove vado, ecc.

Questo tipo di linguaggio circolare, idem per idem, frequente nella Bibbia, corrisponde a un modo di parlare nel quale si vuole significare talora un senso di indeterminazione, ma altre volte, come qui, che si fa libera­mente, di propria volontà, una determinata azione, e, cioè, rife­rendoci ad un testo preciso come Es 33,19:  “io faccio grazia a chi faccio grazia”  significa “io faccio grazia a chi voglio fare grazia[6].

Tornando al nostro brano, possiamo riassumere così la precedente osservazione: Mosè riceve da Dio il “Nome” che afferma che Dio è quello che vuole essere Lui, non è cioè determinato nel suo essere che da sé stesso, dalla propria “volontà” e li­bertà[7].

A differenza dell’uomo, la cui libertà è sempre paradossalmen­te condizionata e determinata, Dio ha esclusivamente nella sua libertà l’unico fondamento del proprio esistere: egli è ve­ramente libero d’essere quello che vuole essere!

La formula idem per idem indica inoltre anche una totalità ed intensità (cfr. ancora Es 33,19; Ez 12,25; 36,20). Significato che calza perfettamente con il nostro passo!

Questo tratto della libertà di JHWH diventerà particolarmente importante nel libro dell’Esodo quando il popolo si modellerà il vitello d’oro, perché, non sopportando il silenzio di Dio, che sembra concretizzarsi nell’assenza di Mosè, vorrebbe plasmarsi un Dio più “economico”, più “manipolabile”, al servizio dei propri bisogni e desideri. Per questo Dio rivelerà lì di nuovo il proprio Nome, ricordando che egli è sovranamente libero nell’essere il Dio misericordioso.

Si deve poi notare che la formula ebraica è al futuro (“io sarò chi sarò” oppure un altro tempo che indichi un’azione non «compiuta»; perciò Aquila e Teodozione hanno tradotto: esomai hos esomai). Il nome divino viene interpretato come «teologia della storia»: Dio sarà così come vorrà essere e come si manifesterà concretamente nella storia di Israele

Egli sarà un Dio «presente»; è infatti necessario comprendere il significato del verbo “essere” (hyh) in ebraico. Esso non indica uno stato o una condizione, ma un’azione e per questo è grammaticalmente nella categoria dei verbi “attivi” e non dei cosiddetti verbi “stativi”. Il verbo “essere” indica quindi una presenza fattiva, un essere attivo. Dio si rivela allora a Mosè, manifestando il segreto della sua persona, come Colui che è veramente attivo, che esiste e perciò conta e vale, a differenza degli idoli che non sono o, meglio, non valgono o possono nulla. Se il “nome” nel concetto semitico non è un vuoto appellativo, ma la realtà stessa della persona, Dio rivela che la sua realtà profonda è quella d’essere sempre presente con il suo popolo e di contare realmente nella sua vita.

Il dinamismo di questa presenza è suggerito in tre modi: dal fatto che l’iniziativa di manifestarsi a Mosè è soltanto di Dio, in secondo luogo dal dinamismo dello šem che nella mentalità semitica è inteso come concretezza delle azioni, prestazione, potere e fama di una persona[8], e infine dal significato che a tale Nome viene riconosciuto dal testo esodico.

2.4. Un Nome carico di speranza

A questo punto è utile riferirci all’intero contesto del cap. 3 ed in particolare al v. 15, quando Dio si autoproclama Si­gnore e Dio dei padri: “Dirai agli israeliti: JHWH, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Gia­cobbe mi ha mandato a voi: questo è il mio nome per sempre, que­sto è il titolo con il quale io sarò ricordato di generazione in generazione”. Da questo versetto si può ben vedere come l’autori­velazione che Dio fa del suo nome, non è una sterile definizione filosofica, ma una splendida promessa ed im­pegno.

Il suo nome è “essere presente”, “contare”, “essere liberamen­te presente” come il Dio che liberamente vuole riscattare il suo popolo dalla schiavitù, come il Dio presente a compiere le sue promesse, come Colui che in modo indisponibile all’uomo ed indefettibile diventa liberatore del popolo. E se si pensa che in ebraico il verbo è al futuro si può anche interpretare l’enigma­tica frase “Io sono chi sono” con un’accentuata risonanza futura: “Io sono colui che liberamente sarà accanto a te per liberarti, dovunque sia possibile che tu ti trovi”.

La parte finale del v. 15 trae le conseguenze teologiche della rivelazione del Nome. Esso è tale per sempre in quanto designa una disposizione di Dio verso il popolo che non può mutare, perché la sua fedeltà è indefettibile. Il Nome sarà amato, celebrato, santificato da Israele, sarà strumento perpetuo di adorazione.

Far memoria del Nome sarà pertanto fare memoria del Dio che ha ascoltato il lamento del suo popolo e, dalla teofania del Sinai, anche dei suoi comandamenti (Es 20,24). Israele sarà il popolo chiamato a commemorare il nome di JHWH, il che significherà rinnovare incessantemente la sua conoscenza, la fiducia in lui, la lode e il rendimento di grazie. “Memoria” e “Nome” sono ormai inscindibilmente legati, in quanto la fede, che si nutre del ricordo grato delle magnalia Dei, ritrova nel Nome tale memoria che sostiene l’invocazione e la glorificazione (cfr. Sal 135,13) incessante.

Un altro elemento importante sul piano del significato teologico è il legame (redazionale? o patrimonio già acquisito della fede di Israele?) tra il v. 14 e il v. 15, dove il soggetto della missione di Mosè è la prima volta 1’«Io sono», mentre nel secondo caso è «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo...». Il collegamento che l’autore stabilisce è dunque tra il Dio della religiosità patriarcale, il Dio della liberazione e quello della Legge[9]. Oltre che fare emergere la continuità del piano divino, questa connessione  getta una luce sul cammino della religiosità patriarcale, che non appare più un vagare incerto, mosso semplicemente da un bisogno di sacro, ma si ostende come rivelazione divina, protesa al compimento della promessa; d’altra parte la rivelazione del Nome si dà come espressione sintetica del dispiegarsi storico delle azioni salvifiche di JHWH, rivolte alla formazione di un popolo che liberamente consente all’Alleanza e alle esigenze di questa.

3. Il Nome, la rivelazione e il silenzio

Per illustrare la peculiarità della rivelazione biblica di Dio si può partire proprio da questa teologia esodica del Nome, dove Dio nomina se stesso come soggetto e, con l’emergenza del nome, il linguaggio si muta in istanza di discorsi, in evento di parola; così non può essere compresa la rivelazione del Nome come un’informazione su un oggetto, ma come un’interpellazione che obbliga il destinata­rio a situarsi rispetto al parlante. Con il Nome si entra pertan­to nel registro della rivelazione. Ciò che decide dell’accessibi­lità di Dio non è la capacità dell’uomo di superarsi, di trascen­dersi, ma questa inaccessibile e indisponibile volontà di Dio di manifestarsi. Dio non è il termine della trascendenza umana por­tata al massimo, ma Colui che liberamente si concede, al di là di ogni prospettiva umana, e che perciò rimane nascosto nella sua stessa manifestazione; è il Dio che rivela se stesso come il Dio dell’Alleanza, cioè che vuole entrare in relazione con noi, ma esattamente come il Dio “altro” dalle nostre rappresentazioni di Lui. Non a caso il Tetragramma si trova nella condizione strana per cui il nome non deve mai essere pronunciato; e il Tetragramma è sostituito, nella lettura, da Adonai, o haššêm che a sua volta non deve essere pronunciato invano. “Il nome ha un nome, il nome si mostra e si dissimula. Occorre che la venuta del senso nel contesto sia sempre anche un’anacoresi o una santità: occorre che la voce nel parlare sia anche la voce che si affievolisce o tace”.[10] 

4. In Egitto: una nuova rivelazione del Nome?

La risposta divina al lamento di Mosè è il cosiddetto secondo racconto di vocazione di Mosè[11] (Es 6,2-8). Ci limitiamo qui a proporre delle riflessioni che sviluppano gli spunti di analisi di J.-L. Ska[12]. Procederemo in questo modo: stabiliremo il genere letterario del passo, poi il suo contenuto e i rapporti del testo con il suo contesto.

Anche la questione del genere letterario è importante. Indubbiamente il testo di Es 6,2-8, in quanto sacerdotale, segue nella trama il racconto di Es 2,23-25. È in qualche modo quindi la risposta al lamento degli israeliti ed è il corrispondente sa­cerdotale della vocazione di Mosè, che troviamo in Es 3-4. Sareb­be pertanto un doppione di Es 3-4. Ma la cosa non è così chiara in quanto mancano elementi essenziali nel racconto di vocazione come l’obiezione, una risposta chiara all’obiezione e chiaro invio in missione. Sono state date quindi varie soluzioni. Proponendo di leggere il nostro testo in continuazione diretta con Es 2,23-25 si è suggerito di vedervi un oracolo di salvezza, un oracolo di giudizio, un oracolo di prova. Nessuna di queste ipo­tesi però è veramente convincente. Secondo Ska, che critica le soluzioni di M. Oliva e di P. Weimar, la soluzione è da ricercare nel confronto con certi testi di Ezechiele (Ez 11,1-13.14-21; 12,21-25.26-28; 14,1-11; 20,1-31; 26,1-6; 36,16-32; 37,1-14). So­prattutto Ez 20,1-31 fornisce un parallelo particolarmente inte­ressante nella forma e nel contenuto, con un riassunto della sto­ria dell’esodo e del soggiorno nel deserto. La struttura di que­sti oracoli è analoga a quella del nostro testo di Esodo. Una formula di introduzione; un messaggio destinato al profeta, ri­guardante il passato; la formula cerniera laken ’emor; un mes­saggio da trasmettere al popolo concernente il futuro; una con­clusione. Sono numerose le corrispondenze con il nostro testo di Esodo. Innanzitutto qui Dio si rivolge a Mosè soltanto, tutti i verbi sono al passato, vi è la formula cerniera e il resto dell’oracolo è destinato a tutto Israele e concerne il futuro del popolo. Sembra allora legittimo vedere in Es 6,2-8 un oracolo di risposta assai vicino alle “parole di disputa” o ai “discorsi di confronto” di Ezechiele. Questi oracoli hanno la funzione di ri­spondere a obiezioni, a una critica antecedente e di prendere po­sizione di fronte a certi fatti del passato. Bene, qui la domanda è: «Ma che cosa deve rispondere o che cosa deve criticare Es 6? Quali sono i fatti che provocano la reazione di Dio?». Può essere utile allora qui, ancora prima di dare una risposta, analizzare il contenuto dell’oracolo.

E’ bene notare che il nostro testo di Es 6,2-8 sembra riassu­mere un po’ tutta la storia sacerdotale, da Gen 17 a Nm 14, a Dt 31; abbiamo infatti un riassunto della storia di Israele dopo le promesse fatte ai patriarchi fino all’entrata nella terra promes­sa. E anche la terminologia e certi temi vanno molto al di là di ciò che si è letto in Es 3-4. Ma c’è di più. Lo scrittore Sacerdotale usa una terminologia speciale per descrivere questa storia di Israele e notiamo che detta terminologia appartiene al vocabolario familiare. In altri termi­ni il sacerdotale descrive come Israele è entrato a fare parte della “famiglia di Dio”. Ebbene il primo verbo importante che appare è il verbo g’l (Es 6,6). Questo verbo è usato unicamente qui dal Sacerdotale, mentre nel resto dell’Esodo si trova solamente in Es 15,13. È inutile insistere sul ruolo del go’el e sulla sua significazione teologica in certi contesti, soprattutto nel Deu­teroisaia. La questione è di sapere perché Dio usi questo verbo per qualificare la sua azione di salvezza verso Israele. Noi sap­piamo che il goelato suppone un rapporto di parentela ed è il pa­rente più prossimo colui che deve riscattare un membro della fa­miglia ridotto in schiavitù, deve vendicarlo o deve attuare la legge del levirato. Non può essere quindi senza significato l’uso del termine g’l per dire l’azione di liberazione verso Israele. E la risposta è questa: Dio libera Israele redimendolo, proprio perché, grazie ad un patto concluso con i patriarchi, egli è di­ventato il familiare di Israele o viceversa Israele è il familia­re di Dio (Es 6,3-4.8). È questa alleanza quindi il motivo che Dio menziona esplicitamente per spiegare il proprio intervento (6,5b). Ecco allora un legame di parentela che unisce Dio al suo popolo.

La seconda espressione va nel medesimo senso e segnala una tappa ulteriore dell’entrata di Israele nella sfera intima di JHWH. In effetti l’espressione lkh... le... le... segnala l’in­troduzione di un nuovo membro nella famiglia (6,7)[13]. Con questo verbo si può trattare di una sposa (come in Gen 12,19; 25,20; 28,9; ecc.), di una ragazza (in Est 2,7.15), di uno schiavo (2Re 4,1). Sempre in Es 6,7 abbiamo una terza modalità che completa questo quadro del vocabolario familiare:  hyh... le... le..., che significa “essere, apparte­nere a... come...”. Questo giro di frase si ritrova anche in Gen 20,12; 24,67; Nm 36,11; Dt 20,13. Con questa formula in Es 2,10 si descrive la formula di adozione di Mosè da parte della figlia del Faraone. È  quindi una formula di adozione. Essa si ritrova anche in 2Sam 7,1-14 e 1Cr 17,3, allorché Dio afferma che sarà un padre per il re e il re sarà per Lui un figlio, cioè lo adotta. Più sovente queste due formule di Es 6,7 appaiono nel discorso matrimoniale: prendere qualcuno come donna, come uomo; ma questo uso non è affatto esclusivo. Il nostro autore ha quindi voluto suggerire la metafora del matrimonio nel contesto d’al­leanza e forse anche la metafora dell’adozione (Es 6,7 descrive gli avvenimenti del Sinai in realtà). Però non è facile scegliere tra il linguaggio matrimoniale e quello filiale. Infine abbiamo un’ultima espressione che viene a completare questo quadro ed è il verbo bw’ (hifil, 6,8) che appare spesso anche nel contesto familiare. Infatti in Gen 24,67; Dt 21,12 e Gdc 12,9 questo verbo descrive l’azione di introdurre una o più spose nella casa o in famiglia (cfr. Rut 4,11). Non è certamente l’unico significato del verbo, ma non è senza significato il fatto che esso sia vici­no ad altri verbi che hanno questa connotazione familiare.

Tale analisi ci permette allora di dire che l’autore sacer­dotale vede l’alleanza, ancora più che come una categoria astrat­ta, come la cifra sintetica per leggere la storia di Israele e questa storia è una storia familiare. I figli di Israele sono schiavi in Egitto, ma non si devono preoccupare della loro sorte perché Dio ha sentito il loro grido. Egli si ricorda della sua alleanza con i patriarchi ed è venuto a riscattarli, cioè a com­piere il suo dovere di familiare. JHWH non si può lì accontentare quindi di liberare il suo popolo (il verbo ys hifil); piuttosto lo adotta, lo fa entrare nella sua intimità, lo fa diventare sua sposa, suo figlio, comunque sua propria famiglia.

L’ultima tappa di questo processo è l’introduzione nella ter­ra promessa, che in fondo corrisponde molto all’introduzione del­la sposa nella stanza nuziale. Tutta questa storia familiare è inquadrata e attraversata dall’ affermazione ’anî JHWH (Es 6,2.6.8; si veda anche la formula di riconoscimento nel v. 7). Il nome JHWH è stato rivelato da questa storia che Dio fa con il suo popolo. Si noti poi l’uso del verbo ydc al v. 2b e 7b.

Allora la storia di Israele, questa pagina della storia di I­sraele e la rivelazione del nome di Dio sono una medesima cosa; la storia di Israele che diviene la famiglia di Dio rivela un altro aspetto del significato del nome JHWH.

Inversamente il nome di JHWH non può essere che conosciuto attraverso l’esperienza dell’alleanza, cioè l’esperienza della storia dei rapporti intimi tra Dio e il suo popolo. E così in Es 6,2-8 non è illustrato soltanto un riassunto della storia di Israele, ma al medesimo tempo viene dato per così dire il succo di quella che è la rivelazione del nome di JHWH, cioè la rivelazione di un Dio che si vuole comunicare fino ad intessere con noi rapporti reciproci di alleanza, di profonda intimità.

In conclusione appare il senso anche di questo testo che è un’ affermazione di un Dio che si rivela con tutta l’autorità e con tutta la sua potenza; ed egli si rivela come il Dio per I­sraele, cioè il Dio dell’alleanza, il Dio che si lega strettamen­te alla storia di Israele. Il genere di questo testo quindi appa­re anche chiaro ed è il genere di rivelazione. Il legame con il contesto è evidente, non solo la relazione tra Es 6,5 e 2,24 con le espressioni proprie corrispondenti, ma anche il legame del nostro brano con il lamento di Mosè al cap. 2,22-23. Egli è contestato nella sua missione e si domanda il senso dell’intervento di Dio, e Questi risponde dicendo che il suo è l’intervento di un familiare, il quale si sente impegnato nel rispettare il rapporto di in­timità, di familiarità che ha con il popolo. E così la costruzio­ne enfatica del cap. 5,23 («e tu non hai certamente liberato il tuo popolo») appare collegata con Es 6,6. E non è facile dire che sia una pura coincidenza.

Poiché l’oracolo nostro è un oracolo di rivelazione e tratta innanzitutto del nome di Dio e del rapporto di Dio con il suo popo­lo, appare il legame anche col contesto della domanda del Faraone al cap. 5,2: «Chi è JHWH? Io non conosco JHWH». Così la ripeti­zione della formula d’affermazione: «sono io JHWH» prende un rilievo particolarmente radicale. Come pure bisogna riconoscere che prendono rilievo molto forte Es 6,7 e Es 7,5 con la loro formula di riconoscimento, prima da parte di Israele poi dall’E­gitto, che conosceranno JHWH, cioè quel Dio che il Faraone pre­tende di ignorare.

Vediamo pure che la contestazione del Faraone riguarda anche il legame che unisce questo Dio al suo popolo, discutendo questo legame egli mette in questione quindi anche l’esistenza di JHWH. Il messaggio di Dio consegnato da Mosè era abbastanza chiaro: «Libera il mio popolo» e la rispo­sta del Faraone è ugualmente netta. Il tema del popolo che appar­tiene a Dio è particolarmente frequente in Es 3-5 e la parola ‘am vi appare ben 26 volte. L’oracolo allora sottolinea con molta in­sistenza l’appartenenza di Israele a JHWH, proprio perché questa appartenenza è stata messa in dubbio. Evidentemente Es 6,2-8 non risponde direttamente al Faraone, ma a Mosè e al lamen­to di Mosè. La risposta alla critica e al dubbio del Faraone ap­parirà invece in Es 7,4-5. Se leggiamo poi il testo nella sua si­tuazione canonica attuale possiamo dire che Es 6,2-8 gioca un ruolo cruciale; in effetti la narrazione ha raggiunto il punto più basso proprio alla fine del cap. 5, quando la resistenza del Faraone trova un alleato nella resistenza stessa del popolo di Dio ad essere liberato. In effetti si ha l’impressione che Dio abbia  mandato invano  Mosè a liberare il suo popolo, e la situazione di Israele pare peggiorata rispetto alla precedente. Persino Mosè sembra scorag­giato e appare mettere in discussione la sua missione; bisogna assolutamente che allora Dio rilanci la propria iniziativa. La palla è tornata, per così dire, nel campo di Dio e abbiamo qui la rispo­sta: Dio si afferma come il Dio dell’alleanza, il Dio che ha stretto legami di profonda intimità, legami indissolubili, quasi carnali con il suo popolo.

Possiamo perciò anche dire che Es 6,2-8 non è semplicemente un racconto di vocazione, non è un semplice parallelo sacerdotale di Es 3-4. Questo testo sacerdotale si presenta quindi come una reinterpretazione della tradizione e precisamente delle tradizioni dell’Esodo. Una reinterpretazione alla luce della teologia dell’Alleanza. Questo testo sacerdotale conosce certamente i dati della tradizione antecedente; proprio per questo allora li uti­lizza e li reinterpreta. Ci sembra che l’autore abbia voluto reinter­pretare la storia delle origini di Israele in funzione di una teologia particolare, basata sui legami di Alleanza che uniscono Dio al suo popolo. Per mettere in valore questa teologia il sa­cerdotale ha redatto un racconto che riprende l’essenziale delle tradizioni antecedenti dandogli però, per così dire, una svolta nuova. In seguito ha piazzato questa pagina in un punto strategico del racconto. Es 5 lascia il lettore di fronte a una situazione disperata, poiché il primo intervento di Mosè ha ag­gravato il malessere di Israele. Il testo prolunga quindi la bre­ve risposta di Dio al cap. 6,1 e rilancia il racconto portando una risposta profondamente teologica.

5. Il Nome della misericordia

Il libro di Esodo mostra un popolo di Israele facile ad ostinarsi e ad irrigidirsi fino a giungere a dire un “no” pratico a Dio. Ma proprio tale esperienza del peccato, che l’uomo auten­ticamente religioso fa, lascia qui al Sinai il passo all’espe­rienza del perdono divino, del manifestarsi della sua infinita mi­sericordia che vuole incessantemente riallacciare i rapporti con l’uomo peccatore. È su questa misericordia che Mosè punta, come sulla unica chance che Israele ha per superare il peccato che lo affligge, l’infedeltà di cui fa continuamente amara constatazio­ne. Così l’intercessione di Mosè spinge Dio ad intervenire nuova­mente in favore del popolo. E’ quanto racconta il cap. 34, che ripete in parte la struttura del cap. 19 con l’aggiunta dell’or­dine ed esecuzione conseguente di tagliare le tavole e di salire sul monte.

La teofania di Es 34,5-9 precede perciò il rinnovamento dell’alleanza e il dono della legge (Es 34,10-28), che poi Mosè trasmette ad Israele (Es 34,29-35).

La teofania mostra a Mosè il Nome del Dio della misericordia, la cui condiscendenza verso gli uomini si mostra quasi plasticamente nel verbo “scendere”, con cui si descrive l’approssimarsi di Dio a Mosè. La nube in cui Egli scende serve anche a nasconderlo agli occhi di Mosè, per indicare che Dio si mostra davvero all’uomo, ma nel contempo non può che lasciare soltanto trasparire le proprie sembianze, perché altrimenti l’uomo non sopporterebbe il fulgore della sua potenza.

Il testo poi continua lasciando un margine di ambiguità sul soggetto che proclama il Nome del Signore: Dio o Mosè? Scrive A. Schökel: «La nostra interpretazione del testo porta a pensare che in questo momento... è Mosè che pronuncia il nome del Signore; e mentre lo pronuncia l’eco gli restituisce la stessa parola. E co­me nell’eco umana accade che la voce che rimbalza sulla montagna concava o sulla superficie liscia della roccia ci venga restitui­ta con alcune armonie della montagna, così qui non  è la voce di Mosè che viene restituita dalla roccia, ma è Dio stesso che pro­nuncia il suo nome e i suoi titoli. E noi dobbiamo ascoltarlo così perché quando pronunciamo il suo nome, lo sminuiamo con le nostre labbra. Dobbiamo invocare umilmente, e poi fare silenzio per ascoltare il nome di Dio pronunciato da lui stesso, e ascol­tare come suona»[14].

Infatti al v. 6 è Dio che passando proclama il proprio Nome da­vanti a Mosè. Il testo presenta tutto un lungo elenco di titoli e nomi che combina tra loro in liste differenti (ad es., Sal 86,15; Es 20,5-6; cfr. Nm 14,18 che è il testo più vicino a questo di Es 34,6-7). Non proponiamo qui una sommaria spiegazione dei titoli, entrando in un’analisi che esorbiterebbe dai limiti di questo studio.

È un testo in cui confluisce tutta la tradizione biblica sull’immagine di Dio. Dio è definito misericordioso (rahûm) e pietoso (hannûm). Il primo termine deriva dal verbo raham che nella forma intensiva indica essere commossi fino alla tenerezza, avere un amore intenso e partecipato visceralmente, provare mise­ricordia per qualcuno. Il grembo della donna, infatti, si dice rehem. Dio prova, per così dire, sentimenti materni verso il suo popolo, come canterà poi con intenso lirismo Is 49,15.

Il secondo termine sta a significare clemenza, pietà. E’ illuminante l’uso che ne fa Es 22,26 dove Dio si proclama hannûm, perché  ascolta il grido del povero che lo invoca poiché sprovvisto del mantello dato in pegno, unico suo riparo contro il freddo. Il termine richiama perciò l’idea del sovrano che si piega sul bisognoso e rende giustizia all’indifeso.

La formula «lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà» ci di­ce che JHWH non è come l’uomo che perde immediatamente la pazien­za, ma che pur avendo mille ragioni per adirarsi contro di noi non si lascia vincere da questa volontà di rivalsa. Certamen­te sono espressioni molto antropomorfiche e che prendono i sen­timenti umani per illustrare quello che passa nel mistero del cuore di Dio. Nondimeno è chiaro il kerygma essenziale di questa stupenda proclamazione divina del Nome: JHWH è il Dio che vuole rivelarsi nella storia degli uomini attraverso la misericordia e un amore smisurato. Di fronte al peccato Egli non è indifferente ma si manifesta per quello che è veramen­te nel perdono della «colpa (‘awon), trasgressione (peša‘), pec­cato (hatta’ah)» ancor più che nel castigo, che ha eminentemente valore pedagogico. Questo suo atteggiamento non è passeggero, mutevole come negli uomini, ma è stabile come la sua fedeltà; ecco che egli è il Dio che «conserva la sua grazia per mille generazioni». Sulla longanimità di Dio si innesta infatti la sua ricchezza di grazia (hesed) e di fedeltà (’emet).

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 23 ottobre 2000

Testo redatto dall’Autore



[1] La bibliografia sul Tetragramma di Es 3,14 è davvero sterminata, come attesta l’Elenchus of Biblica (Elenchus Bibliograficus Biblicus) che vi dedica da anni uno spazio specifico. Queste poche pagine su Es 3,13-15 sono state elaborate tenendo conto dei commentari di B. S. Childs; F. Micheli; J. I. Durham e soprattutto dell’articolo di B. N. Wambacq, ’eheyeh ’ašer ’eheyeh,  in Biblica 59 (1978) 317-338.

[2] Il problema delle origini dello jahvismo si intreccia con quello delle attestazioni extrabibliche del nome JHWH o dell’ipocoristico JHW o  JH. Esso sembra attestato a Mari (jawi), a Ugarit (jaw), a Biblo (jao) e anche in iscrizioni nabatee si trova il dio ’hjw. La discussione in campo esegetico, pur nelle divergenze di posizioni sul valore e sull’interpretazione di tali dati, giunge alla conclusione che lo jahvismo è più antico dell’Israele biblico e non fu una sua innovazione; originale invece è lo spessore teologico che la riflessione sul Nome acquista nella fede di Israele. Sul problema cfr. J. De Moor, The Rise of Yahwism, Grand Rapids, Michigan, 1995; H. Cazalles, Yahwisme, ou Yahwé en son peuple, in R. Kuntzmann (ed.), Ce Dieu qui vient, Lectio divina 159, Paris 1995.

[3] Vi è chi propende a riconoscere che il tetragramma JHWH riflette in modo corretto la forma più antica del nome che rappresenta la forma verbale sostantivata di uno stato coniugato del semitico hyw, con la preformante ya della terza persona del singolare (Lipinsky). Altri (Cazelles) ricercano invece all’etimologia del nome in antroponimi amorriti del tipo jawi-ilu jawi-ila dove jawi sarebbe il pronome personale “il mio”. Si avrebbe così il collegamento tra il Dio dei padri, “il mio dio”, e il dio nazionale JHWH.  Ma poiché nel semitico occidentale tale pronome è privo di significato, si sarebbe cercato un collegamento con il verbo essere, come è attestato in Es 3.

[4] È discutibile, però, ritenere che i LXX con questa traduzione nelle linea dell’«essere» abbiano effettivamente inteso collocarsi sulla base della «metafisica greca» e non piuttosto sulla base della «rivelazione storica» del Dio dell’esodo come colui che è «presente accanto» al popolo oppresso.

[5] Se “dare il nome” è “fare esistere”, “nominare” (Gen 2,19) e “cambiare nome” indica il potere di chi fa ciò; ma anche il “conoscere” il nome permette di esercitare un potere, come, ad esempio, pretende lo spirito immondo in Mc 1,24. 

[6] Commentando Es 33,19 B. S. Childs scrive: “il nome di Dio, che come la sua gloria e il suo volto sono mezzi per esprimere l’essenza della sua natura, viene definito sulla base dei suoi pietosi atti di misericordia. La formula circolare idem per idem del nome - farò grazia a chi farò grazia - è strettamente affine a quella del nome in Es 3,14- Io sono chi sono - e con la sua tautologia, è una testimonianza della libertà di Dio nel rendere nota l’indipendenza del proprio essere” (B. S. Childs, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato, 1995, p. 599).

[7] “Vriezen ha mostrato chiaramente che la formula non è una semplice espressione di indeterminatezza, ma un’accentuazione della realtà di Dio: “«io sono chi sono» significa: «io sono là, dovunque sia possibile... sono realmente là”»” (B. S. Childs, op. cit., p. 85).

[8] Cfr. A. S. Van Der Woude, šem (nome), in E. Jenni - C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, vol. II, Casale Monferrato, 1982, 845-869, qui coll. 355-56.

[9] Non vogliamo  risolvere qui la problematica del «Dio dei padri», che si articola in tre direzioni:

1)    Il Dio dei padri viene presentato come lo stesso dio, ma era davvero un dio unico o era un dio diverso per ogni padre?

2)     “Dio dei padri” era il nome proprio di questo Dio, oppure era solo un epiteto particolare dato da un clan al Dio che chiamava El?

3)    Se questo fosse vero, il «Dio dei padri» va allora collegato al dio «El» del pantheon cananeo?

In ogni caso di un nome proprio El per il dio patriarcale Es 3 non parla. La domanda di Mosè al v. 13 è comprensibile solo se “Dio di Abramo:::” è visto come un nome generico. Ma ciò è solo un uso linguistico posteriore introdotto dopo l’identificazione di JHWH con il Dio dei padri, oppure una testimonianza storica?

[10] E. Levinas, L’Aldilà del versetto, Na­poli, 1986, p. 204.

[11] Cfr. G. Trabacchin, La rilettura sacerdotale della vocazione di Mosè, in Parole di Vita 17 (1996) n° 2, pp. 19-24.

[12] J.-L. Ska, Quelques remarques sur Pg et la dernière rédaction du Pentateuque,                                                         in A. De Pury (ed.), Le Pentateuque en question, Genève , Labor et Fides, 1989 , 95-125. 

[13] Rimando qui allo studio su lkh di H.H. Schmid, «Lkh, Nehmen», THAT I, 877.

[14] L. Alonso Schoekel - G. Gutierrez, La missione di Mosè, EAP, Roma 1991, p. 124

 

 

 

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